Articoli con tag la camelia vigevano

COLLEZIONI – I Re Magi

Melchiorre – Baldassarre e Gasparre

I doni dei Magi sono riferiti alla natura di Gesù : quella umana e quella divina.

L‘oro è il dono riservato ai Re e Gesù è il Re dei Re, l’Incenso, come testimonianza di adorazione alla sua divinità, perché Gesù è Dio, la Mirra, usata nel culto dei morti, perché Gesù è uomo e come uomo, mortale.

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La Camelia Collezioni – Video Promo

Da oggi, 02 gennaio 2021, La Camelia Collezioni diventa itinerante.

Le raccolte che la compongono potranno essere visibili solo in occasione di mostre, allestimenti a tema e virtualmente collegandosi al sito la camelia collezioni

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VESTITI PER SET – Gold & Tulle Black

Il nuovo anno è arrivato !

La Camelia Collezioni augura Buon 2021

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Un Capodanno da favola o una favola di Capodanno?

Secondo la più classica delle tradizioni, per salutare l’anno nuovo, verso le 23.45, la nonna Clementina stendeva un “runner” rosso sulla tavola,ricamato con soggetti natalizi, in centro metteva il panettone e i bicchieri anche per noi piccoli e, allo scoccare della mezzanotte, il nonno o il papà stappavano una bottiglia di “Asti spumante secco” e una di “Asti spumante dolce”.

A noi bambini veniva versato un goccetto di quello dolce, brindavamo felicemente tutti insieme e, quando cominciavano a chiudersi gli occhi, dopo un paio di fettine di panettone, mamma e papà prendevano in braccio me e mia sorella Clementina, che portava il nome della nonna e, con mio fratello per mano, si incamminavano verso la casa dei nonni paterni per andare a dormire.

Un 31 dicembre del 1955, se la memoria non mi tradisce, però, accadde un fatto che scompigliò in parte le nostre consuetudini. Nei giorni precedenti San Silvestro, i miei genitori avevano ricevuto una raffinata busta color avorio pallido. All’interno, su un cartoncino di carta di Amalfi tagliata a mano era stato vergato,con elegante calligrafia, l’invito per partecipare alla festa di fine d’anno a casa di un valente e famoso critico d’arte, cognato della sorella del papà per parte di marito. I miei ne furono molto lusingati e, risolto il problema dell’omaggio da portare, un tralcio di vischio naturale con le sue belle bacche ialine, accompagnato da una bottiglia di pregiato Barolo, dovevano sbrigarsi, perché mancavano pochi giorni e non volevano fare brutte figure.

Bisognava occuparsi dei vestiti e, se per il papà non era un problema, perché se la sarebbe cavata con l’abito scuro, la camicia di popeline bianca e una bella cravatta Regimental, la mamma invece aveva molti dubbi. Scartato il nero, perché per la notte dell’ultimo dell’anno non era un colore molto indicato, cominciò un esame accurato dei suoi vestiti eleganti.

Mia sorella e io non la abbandonavamo neanche per un attimo, sdraiate a pancia sotto sul letto matrimoniale dove nostra madre appoggiava gli abiti da provare, sembravamo i due topolini del film Cenerentola di Walt Disney e naturalmente commentavamo e dicevamo anche la nostra, toccando e mettendo le mani dappertutto, aumentando così l’asticella dello stress.

Venne scartato un abito bianco che faceva tanto sposa, un due pezzi di jersey color petrolio, ma adatto più a un pomeriggio elegante, una mise di sangallo molto carina, ma troppo estiva. La scelta infine cadde su un meraviglioso vestito di chiffon di seta, lungo fino a metà polpaccio con una scollatura a “V” incrociata e drappeggiata sul petto, con la gonna molto ricca e svasata. La fantasia del tessuto era splendida, su un colore base grigio cinerino chiaro, vi erano pennellate di blu, azzurro e grigio più scuro, l’effetto era strabiliante.

La mise era completata da una minuscola pochette gioiello a mano, intessuta con fili argentati, decolleté di pizzo nero, collana di perle, alle orecchie pendenti sempre con le perle,argento e marcassite, regalo di papà di quel Natale.

Una robe manteau nera, come soprabito, in seta pesante grezza, maniche alla Raglan tre quarti, collo a scialle, aperto, trattenuto solo all’altezza del petto da una bella broche d’oro e brillantini.

Guanti di raso lunghi grigio chiaro e da ultimo un capolavoro di calottina, guarnita da un ciuffetto di aigrettes e, come tocco finale, una volpe argentata al collo, come si usava negli anni 50 con la bocca a molla che si agganciava alla coda. La mamma non era molto convinta di indossare questo animale, ma mia sorella e io alla fine la convincemmo.

La sera della festa, sedute sul letto, silenziosissime, la guardavamo mentre si preparava. Lei, mentre si vestiva, cantava per noi le canzoni del film Cenerentola e sottovoce accennava a qualche brano d’opera.Noi assolutamente estasiate, la osservavamo, come si osserva la crisalide che si trasforma in una bellissima farfalla. Alla fine, due gocce di Jean Marie Farina dietro le orecchie e sui polsi, un velo di rossetto e voilà la nostra mamma-principessa era pronta.

Papà adorava sua moglie e la trattava come una gemma preziosa, quindi la prese per mano e se ne andarono quanto mai felici.

A noi toccava scegliere, a questo punto, se stare coi nonni paterni o raggiungere nostro fratello dai nonni materni. La decisione fu unanime, non avevamo nessuna voglia di uscire al freddo, neanche per un minuto, saremmo state padrone assolute della nostra camera almeno per una sera, non ci sembrava vero. Non ci interessava assolutamente niente di brindare e così dopo cena, via a letto, aspettando la mattina dopo i racconti della mamma.

Il giorno seguente a colazione, due bambine con gli occhi sgranati, sedute davanti alla loro tazza di latte, ascoltavano i racconti della notte precedente: la mamma aveva colpito tutti per la sua bellezza, grazia ed eleganza, ma non solo anche per il suo talento al pianoforte, dato che le avevano fatto garbata richiesta di esibirsi in qualche brano. Cibo ottimo e accurato, i partecipanti meravigliosi, le signore presenti molto chic, con molto sfoggio di raso, sete e velluti.Un ricevimento veramente all’altezza di chi l’aveva pensato, però la cosa che da alloraè rimasta impressa in modo indelebile nella mia mente, in tutta la narrazione di questa scintillante notte di San Silvestro, è stata la presenza del maggiordomo, in guanti bianchi, che girava impassibile tra gli invitati, con guantiere colme di leccornie. Mi sono sempre chiesta se avesse anche parrucca e polpe.

Non si può concludere questa carrellata sulle feste di Natale senza parlare dell’Epifania, naturalmente noi bambini eravamo un po’ tristi, perché sarebbe ricominciato il trantran della scuola, ma c’era la cara “vecchina” a consolarci coi suoi piccoli doni. Non ho ricordi particolari di Epifanie trascorse con tutta la famiglia perché, essendo l’ultimo giorno di vacanza, magari mamma e papà andavano a trovare con mio fratello gli zii con cugini tutti maschi. Mia sorella e io in genere rimanevamo a casa, evitandoci così un sacco di fastidiosi dispetti.

Una volta, forse avevo sette anni, forse otto, ero rimasta sola con i nonni paterni e, va detto subito, che io con la mia nonna Adelina avevo un feeling speciale, lei mi ascoltava molto e agiva di conseguenza. Aveva preparato la mia calzina, anzi il mio calzettone della Befana, appeso con una molletta ai raggi avvitati al tubo della stufa economica. Fu una formidabile sorpresa. Dopo l’immancabile mandarino, i torroncini che a me piacevano tanto, meraviglia delle meraviglie, trovai in fondo, una piccola caffettiera napoletana di alluminio in tutto e per tutto uguale a quelle in uso allora. Saltai letteralmente al collo della nonna, la baciai e l’abbracciai, perché a Natale avevo ricevuto tra i tanti doni, un servizio da caffè di terracotta del colore delle ceramiche celadon per le mie bambole che mi colpì subito per la raffinata tinta verde giada.

Con questa immagine di gioia e ingenua felicità, concludo i ricordi di quando noi  bambini “aspettavamo ancora Gesù Bambino”.

I Ricordi personali di Maria Cristina Cantàfora

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Il Santo Natale – Ricordi d’altri Tempi – Parte II°

Anni ’50 ….quando aspettavamo ancora Gesù Bambino

Seconda Parte

20 di dicembre.

I giorni passavano velocemente e i preparativi per le feste si avvicinavano sempre più.

Primo pomeriggio: “Drinnn…” Il campanello gracidante suona e la maniglia della porta viene abbassata.

“È permesso?” “Tina, a sun me! Sono io!” La nonna si avvicina alla porta per accogliere l’ospite.

Entra un signore alto, ben portante con i capelli grigio argento, alla “Mascagni” lucenti per l’abbondante uso di brillantina, tanto da lasciare dietro di sé uno stordente profumo di lavanda e, a detta di tutte le donne della sua numerosa famiglia, con una certa somiglianza con Clark Gable. È lo zio Mario, per me in realtà un prozio, fratello della nonna. Le sue visite periodiche non me le perdevo mai ma,soprattutto quella in prossimità delle feste, neanche per tutto l’oro del mondo.

Arrivava sempre carico di borse, pacchi, pacchetti che contenevano squisitezze a non finire,era fornitore di fiducia di alcuni ristoranti di Milano e di altri clienti privati che desideravano alimenti genuini e lo zio, per soddisfare tutti al meglio, si riforniva da produttori agricoli di fiducia della zona del piacentino.

Ricordo le lunghe telefonate tra lui e mia nonna, dove lei gli dava le “comande” eseguite sempre a puntino, per non prendersi delle strigliate dalla “Tordella”, come lui affettuosamente la chiamava, famoso personaggio del Corriere dei Piccoli, allora molto in voga tra adulti e bambini.

Si sedevano, lo zio Mario e la nonna, all’estremità del tavolo di legno grezzo della cucina e, mentre lui cominciava a posare sul ripiano i suoi involti, si parlavano fitto fitto, quasi bisbigliando, in stretto dialetto piacentino che per me equivaleva all’ostrogoto. Io non avevo occhi che per le meraviglie che man mano venivano sottoposte all’esame insindacabile della nonna.

Così,a seconda delle necessità, venivano scelti panetti da mezzo chilo di burro di Cadeo, un paesino nei pressi di Piacenza, un paio di dozzine di uova freschissime, pezzi di grana padano avvolti in una carta-paglia verdolina, salami piacentini, un po’ di coppa già affettata, cotechini e per ultimo, il pezzo forte: un bellissimo pollo ruspante da cucinare, ripieno il giorno di Natale e una altrettanto bella faraona. I due fratelli, infine, bevevano insieme un gustoso caffè fatto con la napoletana e lo zio se ne andava, dopo avermi riempito le mani di dolcissimi bon bon.

Il giorno 21 lo dedicavo ai nonni paterni, Vincenzo e Adelina. Il nonno, di origine calabrese, riceveva in dono dai suoi parenti di Crotone cassette di deliziosi agrumi, olive, collane di fichi secchi, mandorle. Bisognava sistemare la frutta ben coperta sul balcone, sgusciare le mandorle, metterle a bagno, pelarle e infilarle in mezzo ai fichi tagliati a metà,pronti per essere infornati la notte di Natale.

Terminate queste incombenze, la nonna Adelina mi mandava a comprare farina, cannella e miele per fare i biscottini a forma di omino da appendere all’albero. La mamma non amava molto che si alterasse in qualche modo l’equilibrio e l’armonia che aveva creato decorando l’albero, ma le dispiaceva non far contenta la suocera, così lasciava sempre dei rametti vuoti e al collo degli omini legava dei piccoli nastri colorati.

Per me e per la mia sorellina Clementina, detta Tinin, era tutto un gran correre dauna casa all’altra: quella dei nonni paterni dove abitavamo era al numero civico cinque, mentre quella dei nonni materni al sette, questa era al piano rialzato, l’altra al terzo piano. Sembravamo due palline che rimbalzavano di qua e di là.

La nonna Tina, ormai eravamo al giorno 22, aveva dato disposizione alla mattina presto, a una delle sue sorelle che aveva un pastificio, per il quantitativo di anolini che erano necessari da fare in brodo e indicazioni precise sul ripieno eaveva letteralmente spedito il nonno Pietro detto Pierino a dare una mano e soprattutto a supervisionare che tutto fosse fatto a puntino, ricordandogli anche di ordinare il panettone nella pasticceria di sua fiducia.

Finalmente tutti fuori casa, per noi bambini era il penultimo giorno di scuola, la “Tordella”, farina a fontana sul tavolo di legno, uova, un pizzichino di sale, acqua tiepida, cominciava a impastare con energia e sapienza quella che sarebbe stata la sua sfoglia per le tagliatelle, che la famiglia avrebbe mangiato nei giorni successivi e per i maltagliati per la cena della vigilia. 

Eh, sì, questa cena era veramente speciale, per un particolare. Terminato il pasto, la nonna allestiva sempre un piccolo tavolo vicino alla porta con il piatto per il viandante: uno sconosciuto infreddolito e affamato che avrebbe potuto bussare la notte di Natale. Avrebbe trovato conforto con una scodella di maltagliati caldi, un pezzo di pane col formaggio, ma non solo, vi era anche una bugia con una candela rossa accesa per indicare la strada.

Credo che, in quel caso, il viandante fosse il nonno che, in pensione, lavorava di sera come maschera nei teatri e soprattutto alla Scala, un lavoro perfetto per lui, amante dell’opera lirica. Usciva verso le sette di sera, toscano in bocca, inforcava la bicicletta e se ne andava. Al ritorno, ben dopo la mezzanotte, d’inverno, trovare qualcosa di caldo era un grande piacere e la sera della vigilia, al posto della solita camomilla, trovava la minestra calda.

Ormai la casa del numero sette era un affollato formicaio: la mamma e la zia avevano tolto dal baule le tovaglie delle feste per rinfrescarle e per il giorno di Natale ne avevano scelta una di lino bianco in sfilato siciliano.

Sul grande tavolo della cucina, una distesa di strofinacci di lino era pronta per piatti, bicchieri, calici, piatti di portata, antipastiere, vassoitutti minuziosamente lavati e messi ad asciugare, le posate d’argento, invece, tolte dai loro astucci, venivano lucidate alla perfezione.

La nonna intanto stava affrontando il suo capolavoro, la mousse di tonno.Non ho mai assaggiato niente di paradisiaco come questo sublime antipasto, eppure era composto di pochissimi ingredienti: burro, tonno e due o tre acciughe sotto sale, lavate e diliscate. La vedo come se fosse ora, col setaccio stretto tra le ginocchia e il cucchiaio di legno in mano, utilizzato dalla parte convessa, che lavorava e lavorava il panetto del burro freddo, ma non gelato e poi il tonno, aggiunto poco alla volta e infine le acciughe. Tempo, pazienza e grande esperienza nella manipolazione degli ingredienti erano il segreto di quella favolosa ricetta.

E, finalmente, arrivava il Natale. La sera del 24, dopo aver fatto la cena della viglia dalla nonna materna, tutta la famiglia tornava a casa, in fretta, perché a mezzanotte sarebbe arrivato Gesù Bambino coi regali. Mamma e papà, dopo averci sistemato per la notte, ci mettevano nel lettone dei nonni paterni che, per quella sera rinunciavano ad andare a letto presto.

Noi, svegli come grilli, con le orecchie tese, cercavamo di capire esattamente il momento in cui il Bambinello sarebbe arrivato. Il tempo non passava mai… Il nonno aveva una pendola rumorosissima e noi eravamo in attesa dei fatidici dodici rintocchi…

Ecco, si apre la porta, mamma e papà sorridenti ci chiamano e noi, con gli occhi pieni di stupore, troviamo l’albero, magico, con tutte le candeline accese, il presepio illuminato, l’immancabile “Tu scendi dalle stelle…” sul piatto del grammofono ei doni, tanti e belli, perché arrivavano da nonni, zii, mamma e papà.

Avevamo il permesso di giocare qualche minuto e, nel mentre, nonno Vincenzo entrava orgoglioso coi prodotti della sua terra: un vassoio con i fichi caldi e zuccherosi che aveva appena tolto dal forno, ripieni di mandorle e noci, con gli omini al miele, fatti da lui e dalla nonna.

Via presto, a dormire, ora ognuno nel su letto fino alla mattina di Natale, dove ci saremmo trasferiti al numero sette.

Entrando in casa della nonna Tina, piena di fragranze meravigliose di cibo, eravamo tutti letteralmente abbacinati dalla “mise en place”, un colpo d’occhio degno di una rivista di arredamento.

Mobili di noce scuro carichi di vassoi di frutta secca e fresca, dolci e liquori. L’albero illuminato vicino alla finestra e il presepe sul coperchio del piano, entrambi allestiti dal nonno Pierino.

Ma il capolavoro era la tavola apparecchiata con una tovaglia di lino candido in sfilato siciliano, piatti di porcellana di Baviera, bicchieri di cristallo scintillante per l’acqua, il vino, lo spumante, quello dolce. Posate d’argento, antipastiere di cristallo di rocca intagliato come le bottiglie per il vino messo a decantare e le bottiglie originali rivolte verso l’entrata, perché l’ospite avesse subito contezza di cosa gli sarebbe stato servito da bere.

Il panettone troneggiava solitario, al suo posto d’onore, sopra un “runner” di lino carta da zucchero in sfilato siciliano, su una cassapanca antica, sotto la finestra della sala.

Il caffè a fine pranzo veniva offerto in tazzine Rosenthal color crema e pennellate di oro zecchino e versato da una già allora vetusta napoletana di alluminio e sempre molto gradito, anch’io avevo il privilegio di berne in una mia tazzina, allungato con un po’ di acqua calda.

I bicchieri da spumante meritano che la loro storia venga citata. Stupendi, unici bicchieri di vetro soffiati uno per uno a Murano, erano stati regalati alla nonna Tina dal commendator Luigi Alzona, dove svolgeva le mansioni di direttrice di casa ed era molto apprezzata per le sue “mise en place”curate e sempre perfette. Il commendatore, però, amava soprattutto il caffè fatto dalle sue sapienti mani e lo beveva solamente se era lei a prepararlo, vantandosi con tutti: “Ah… il caffè della mia Tina!”.

La giornata si concludeva con la mamma al piano, a volte a quattro mani con la zia, noi che cantavamo e recitavamo le poesie imparate a scuola per l’occasione e la nonna e il papà che si godevano la loro sigaretta e il nonno il suo mezzo toscano.

Buon Natale a tutti!

I Ricordi personali di Maria Cristina Cantàfora

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Il Santo Natale – Ricordi d’altri Tempi

Anni ’50 ….quando aspettavamo ancora Gesù Bambino

Prologo

Milano: 17 dicembre 1949, il mio primo incontro con Gesù Bambino, me lo ricordo nitidamente, come se fosse accaduto ieri.

Negli anni ’40 e ’50, c’era l’abitudine di partorire in casa con l’aiuto della levatrice e, se necessario, anche di quello delle donne di casa. Questa figura, molto rispettata allora per la sua “scienza” e con un’aura un po’ mitica, era sempre allertata in previsione di un parto imminente, in questo caso, si trattava di quello della mia mamma.

Mio fratello e io, il giorno fatidico previsto per il lieto evento, eravamo in trepidante attesa con i nonni paterniche abitavano nel caseggiato contiguo a quello dei nonni materni dove, per tradizione familiare eravamo nati anche noi, sempre nello stesso grande letto matrimoniale.

Noi due, fratello e sorella maggiori, perché ormai così ci sentivamo, sette anni in due, 3 anni io e quattro anni e qualche mese lui, seduti compostamente sulle nostre seggioline, continuavamo a lanciarci occhiate complici e timorose, in un silenzio rotto dai commenti bisbigliati sottovoce tra gli adulti presenti, in attesa dell’annuncio tanto sospirato.

 Finalmente, il “segnale”, due squilli di telefono, per dare il via libera. Svelti, ci alziamo in piedi, ci infiliamo i cappottini, aiutati dalla nonna e, rosi dall’impazienza e dalla curiosità, per mano al nostro papà ci affrettiamo per andare a conoscere il nuovo bebè.

Ed eccoci, mano nella mano, le dita intrecciate, di fianco al letto della mamma. Una visione, la nostra mamma, col viso stanco, ma bella e radiosa che teneva vicino a sé un fagottino da dove, avvolta in un lenzuolino bianco ricamato e in una copertina rosa e celeste, spuntava una testolina piena di capelli neri, un visino minuscolo con gli occhi chiusi.

Per me fu la folgorazione, ecco Gesù Bambino, era nato. Non importava che fosse in anticipo di qualche giorno rispetto al Natale, non importava che fosse femmina e coi capelli neri, cercai di convincere mio fratello, ma lui mi guardò con aria di sufficienza, come uno che la sa lunga. E per tanti anni a venire, almeno fin verso i dieci anni, fui ferma in questa mia convinzione.

Le feste di Natale

Negli anni ’50, il clima non era malato come adesso e le stagioni erano rigorosamente quattro.Capitava spesso che, a volte,i primi fiocchi bianchi cadessero all’inizio di dicembre, come ambasciatori dell’inverno, delle prossime festività natalizie e, di conseguenza, di un lungo periodo di vacanza per tutti gli scolari.

A scuola si chiudeva il primo trimestre, con i temuti“compiti in classe” per la valutazione in pagella, raccolti in un foglio protocollo a righe che, immancabilmente, doveva avere un disegno a tema invernale, eseguito dagli alunni, sulla prima facciata, come fosse la copertina di un libro.In terza elementare, ricordo che per dare un tocco di realismo al mio elaborato, sul tetto della casa che avevo disegnato, avevo incollato del cotone idrofilo per simulare la neve.

Esaurito anche questo dovere, finalmente, gli ultimi giorni in classe filavano lisci come l’olio, gli insegnanti chiudevano un occhio, perché sapevano che i bambini ormai non avevano in testa altro che il Natale e i doni che avrebbero ricevuto. Non che avessero grandi pretese, il paese non si era ancora ripreso completamente dalla catastrofe generata dai cinque lunghi anni di conflitto e dalla grave crisi economica, pesante eredità della Seconda guerra mondiale; le famiglie, per questo motivo, avevano risorse limitate, ma facevano enormi sacrifici almeno in quell’occasione, per dare attimi di gioia ai loro piccoli.

Dopo l’8 dicembre, giorno dell’Immacolata e il 7 Sant’Ambrogio per i milanesi, dove di solito si andava con il nonno materno alla fiera degli ObejObej a comperare le giromette, piccoli soldatini di pasta di pane, durissimi che non potevano mai mancare tra i giochi, si apriva la caccia alla letterina più bella, più decorata da scrivere a Gesù Bambino con i buoni propositi per l’anno nuovo,che precedevano la lista dei giochi preferiti, con qualche alternativa; si concludeva infine con la preghiera di proteggere tutta la famiglia e avere un occhio di riguardo per i nonni.

Partivano le spedizioni nelle cartolerie del circondario e, di solito, ero io quella che andava in avanscoperta a vedere cosa c’era di nuovo. Detto fatto, tornavo a casa e trascinavo con me la mia riluttante sorellina, che nel frattempo era cresciuta e aveva ormai sei anni. La mamma mi dava una sommetta che dovevo amministrare oculatamente, che era sempre maggiore di quella che avrei speso. Per fortuna che mio fratello non apprezzava quel genere di cose leziose, che considerava da “femmine” e si arrangiava con un foglio protocollo diviso a metà per non essere obbligato a scrivere troppo.

I soldi avanzati andavano poi tutti fino all’ultima lira per gli accessori del presepio: la carta roccia, un fondo stellato, qualche pecorella, una statuina nuova, muschio, sassolini bianchi… insomma non ne avevo mai abbastanza, fare l’albero mi piaceva, ma il presepio era la mia passione!

All’albero pensava sempre il papà, che lavorava per le Ferrovie dello Stato,a quel tempo era direttore di tutti i lavori sulle linee ferroviarie della Valtellina: la Milano-Lecco-Colico e la Colico- Sondrio, luoghi dove aveva tante conoscenze, amici rocciatori e scalatori come lui,che ogni anno gli procuravano un bellissimo pino.

Era una festa nella festa prendere quelle fragili palle di vetro, dai colori delicati affidate a noi tre bambini, sotto la guida della mamma, che prima di tutto metteva il puntale, ben saldo sulla cima, per appenderle ai rami con attenzione e sistemare le piccole candele in modo che la fiamma, nella notte di Natale non bruciasse i rametti circostanti. L’albero era in un angolo ben areato della sala, lontano dalla grossa stufa di terracotta a tre ripiani.

Di solito, l’albero arrivava nella seconda decina di dicembre, allora la mamma prendeva tutti gli addobbi, controllava che non ci fosse niente di rotto, che i fili dorati e argentati non avessero perso la loro brillantezza esoprattutto che ci fossero candeline colorate a sufficienza.

Terminata la nostra opera, ci allontanavamo di qualche passo per ammirarne l’effetto. Era sempre una meraviglia, la mamma aveva un gusto innato e un animo d’artista!

Il giorno 23, di solito, il papà si prendeva qualche ora di permesso e nel pomeriggio si fermava a casa per fare il presepio sul ripiano del buffet della sala, che era abbastanza spazioso. Bisognava preparare lo sfondo, il cielo, la base, posizionare i laghetti, requisendo a mamma, nonne e zia tutti gli specchietti da borsetta; recuperare la stagnola color argento delle tavolette di cioccolata tenuta da parte gelosamente per fare i torrentelli, i sentierini segnati dai sassolini bianchi e infine sistemare le statuine, bene attenti a nascondere Gesù Bambino che sarebbe arrivato alla mezzanotte del 24.

Le pecore avrebbero dovuto stare tutte nel gregge col pastore, ma ce n’era una con la zampa posteriore rotta da sempre, non volevamo buttarla via, noi bambini ci eravamo affezionati, forse proprio a causa di questo suo incidente e allora la mettevamo vicino alla capanna con la zampetta rabberciata e un po’ nascosta nel muschio. Ultimi a occupare il loro posto,San Giuseppe, la Madonna, infine la stella cometa e i due angeli che annunciavano la venuta di Cristo.

Questi erano solo i preliminari, nella casa dove vivevamo con i nonni paterni. Ben altro ci aspettava nel caseggiato accanto, dove abitavano i nonni materni con la zia. Lì, la nonna Clementina, Tina per noi,originaria di Alseno, un paesino in provincia di Piacenza, dirigeva con piglio da vera “rezdora” emiliana tutte le operazioni relative al pranzo di Natale, insieme alla zia e al nonno che si occupavano degli addobbi.

Dal menu, a partire dagli antipasti fino al dolce, vini compresi, alla “mise en place” completa della tavola, tutto doveva passare costantemente sotto la supervisione e lo sguardo di aquila della nonna Tina. Bastava un’occhiata e noi filavamo come tanti soldatini.

Ma tutto questo ve lo racconterò nella prossima puntata…

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TAVOLE NATALIZIE – tutto in bianco come la neve

La neve cade sulle composizioni di foglie secche, bacche e pigne che si illuminano di candele appoggiate sui davanzali interni. Alle finestre tendine di gusto alsaziano ad intaglio. Decine di lucine romantiche e il centrotavola dove sbucano fiori freschi si appoggia sulla tavola bianca in lino a ricordare la distesa di neve immacolata. Un runner di velo con ricami effetto rilievo e attorno, sulle sedie vestite, sono appese morbide palle di batuffoli.

Fonte nostro Archivio – Rif. 12.07 C.M.

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TAVOLE NATALIZIE – bianco latte, gocce di cristallo e “veli” di brina

Come in un palazzo d’inverno in un racconto fiabesco il bianco avvolge in tutte le sue sfumature rispecchiandosi in argenti, cristalli, vetri e specchi. Il centrotavola e le decorazioni laterali della tovaglia fatte con il “velo da sposa”. La”magia” è completata da rametti ghiacciati, luci e candele

Fonte nostro Archivio – Rif. CM 20.00

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TAVOLE NATALIZIE – bianco con ricami in rilievo colore oro

L’alzatina – centrotavola con frutta fresca e di marzapane addobbata con nastri e farfalle richiamate anche nei segnaposto. La tovaglia con bordo in shantung di seta colore oro vestita a festa con porcellane e cristalli. Gli schienali delle sedie tengono appesi piccoli doni legati con un nastro in organza oro.

Fonte nostro Archivio – Rif. 12.03

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TAVOLE NATALIZIE – Rosso, oro, frutta e candele

Ogni anno è sempre natale ma lo rendiamo diverso con le nostre idee.

Legato alla classica tradizione natalizia che vuole il rosso e l’oro si accostano candele e frutta; l’uva e le melagrane o ricercata come gli alchechengi e l’ananas. Frutta fresca, finta o essicata anche da appendere all’albero, legarla o posarla in tavolo; frutta dipinta, frutta ricamata, frutta ritagliata…

Per ciascun posto, una sedia addobbata con nastri e composizioni ; il centrotavola con trionfo di pigne, nastri, bacche e palline, sottopiatti decorati a decoupage

Fonte nostro Archivio – Rif. 12.05

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